(I’ve Always Done Everything ⭢ read here in english)
Da piccola, quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, non rispondevo mai una cosa sola.
Non perché fossi indecisa, ma perché sentivo che una risposta unica non mi sarebbe mai bastata.
Ho sempre fatto tutto.
Non per accumulare esperienze, ma perché imparavo in fretta e avevo bisogno di capire fin dove potevo spingermi.
Sono cresciuta muovendomi. Il resto è venuto dopo.
Lo sci è stato il primo linguaggio.
Abitavo lontano dalle montagne e non potevo allenarmi davvero: sciavo quasi solo nei weekend di gara.
Era un gioco, perché ero piccola, e perché mi piaceva stare lì, passare il tempo con gli altri.
Ma l’agonismo c’era già tutto. Mi piaceva fare le gare e mi piaceva vincere.
Non per il gesto tecnico o per la preparazione — che in realtà erano minimi — ma per istinto, per velocità, per quella spinta naturale ad andare più forte.
Sono cresciuta muovendomi.
Sci, atletica, nuoto, bici, orientamento. Cambiava il contesto, non la sensazione. Il corpo capiva prima della testa. Il gesto, il ritmo, la concentrazione arrivavano sempre prima delle parole.
In acqua ci sono sempre stata.
Mio papà da piccola mi chiamava “pesce”: bastava una piscina o il mare e io sparivo lì dentro per ore.
Il nuoto mi è sempre venuto naturale.
Ma, a pensarci bene oggi, non era l’acqua a darmi adrenalina.
A differenza della bici, degli sci o della corsa, lì la velocità non si sente davvero.
Il nuoto mi accendeva solo in gara.
Negli allenamenti mi stimolava il gruppo, il confronto continuo, la competizione costante.
Non era lo sport che sentivo mio, ma era un altro modo di misurarmi.
Con l’atletica è stato diverso.
Non l’ho mai praticata davvero in modo continuativo. Facevo due eventi all’anno: le gare con la scuola e le Miniolimpiadi di Dese.
Non mi allenavo mai in modo specifico. Andavo in bici, e gli allenamenti di atletica semplicemente non entravano nelle mie giornate.
Eppure, nella corsa veloce e nel salto in lungo emergeva qualcosa.
Alcuni record giovanili sono ancora lì.
Un anno, quello del record dei nove anni, lo stesso giorno avevo anche la gara di ciclismo più importante della stagione.
Ho saltato le premiazioni perché dovevo andare a fare il salto in lungo.
Quando sono arrivata, le altre ragazze hanno detto: «No. Quest’anno pensavamo di poter vincere».
Ho fatto il salto. Ho fatto il record.
Zero allenamento specifico. Solo voglia di vincere e un corpo che sapeva cosa fare.
Mi sarebbe piaciuto provare l’atletica sul serio. Non per diventare qualcosa, ma per capire.
Poi ho continuato ad andare in bici.
E ogni tanto, ancora oggi, quella curiosità torna.
La bici, invece, non se n’è mai andata.
Da quando avevo otto anni fino ad oggi è stata il filo più continuo della mia vita sportiva.
Non sempre il più semplice.
Dai tredici anni in poi sono arrivati i problemi fisici, gli stop, le ripartenze.
Una carriera fatta di alti e bassi, di fasi in cui sembrava di dover ricominciare ogni volta da capo.
Non sono mai stata il fenomeno.
Ma non sono nemmeno sparita quando le cose si sono complicate.
Intorno, nel frattempo, c’era tutto il resto.
Orienteering alle medie, con vittorie provinciali e regionali.
Pallavolo, beach volley, basket, calcio al campetto.
Danza mai studiata davvero, ma sempre sentita.
Canto, teatro, cose che mi sarebbero piaciute ma che non facevano parte del mondo da cui venivo.
Guardando indietro, la linea è chiara.
Non ho mai cambiato perché ero confusa.
Ho cambiato perché imparavo in fretta e, una volta capito, sentivo il bisogno di andare oltre.
A un certo punto ho capito che continuare a insistere su una direzione non era più crescita, ma resistenza.
E io non sono mai stata brava a resistere per paura di cambiare.
Forse è per questo che oggi, ancora una volta, sento il bisogno di cambiare direzione verso un nuovo percorso sportivo.
Non per fuggire da ciò che sono stata, ma per continuare a esserlo davvero.
Il prossimo capitolo è già iniziato.
Da gennaio vi porto con me.


One Reply to “”